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Il debito della Germania e antiche furbizie
L’ economic sentiment elaborato dall’istituto tedesco Zentrum für Europäische Wirtschaftsforschung (ZEW), determina il sentiment degli investitori istituzionali tedeschi (banche, compagnie assicurative, fondi d’investimento, ecc..).
Un livello maggiore di 0 indica ottimismo, mentre un valore negativo indica pessimismo.
Si tratta di un indicatore chiave in Europa, in quanto indica lo stato delle condizioni commerciali del paese tedesco. Il dato viene ottenuto da un’indagine condotta presso circa 350 investitori istituzionali e analisti tedeschi. Il clima di fiducia di questo indicatore può catalizzare nella maniera più coinvolgente i mercati del Vecchio Continente e non solo, dato che alle 11.00 il segno positivo rispetto alle attese ( precedente – 55,20 atteso -55,80 attuale -53,80), ha dato una
scossa a borse e mercati fino a quel momento piuttosto depressi. La Germania si conferma essere un volano (anche se indebolito) per l’intera economia europea, pur difettando di opportunismo interno piuttosto che di altruismo comunitario. L’indice ZEW comunque, come ha detto l’Istituto che lo ha emesso, conferma che il sentiment della Germania, sembra essere arrivato ad un punto di minimo di fiducia, ma che le decisioni del vertice europeo di Bruxelles della scorsa settimana, potrebbero averne migliorato le aspettative. La debolezza della sua economia (se pur minore rispetto al resto d’Europa) comincia a farsi sentire, segnando qualche crepa anche per il prossimo futuro. In poche parole questo significa, che la Germania crede sempre più nella sua politica di rigore verso i paesi UE più deboli, mantenendo in un certo qual modo, una forma altamente egoistica rispetto i partners europei, ma che anch’essa soffre della stessa sindrome, visto che per la 5^ volta consecutiva il suo indice più importante segna rallentamenti significativi.
Non dimentichiamo che i tedeschi a debito pubblico non stanno meglio di noi. Se consideriamo poi, che in un articolo pubblicato tempo fa dal “Corriere della Sera” a firma di Massimo Mucchetti, dove (alla faccia dell’arroganza della Merkel nei confronti degli altri paesi) il debito pubblico tedesco veniva in questo modo, messo sotto la lente: “Angela Merkel paragona l’Italia alla Grecia. Per quanto si possa dir male del nostro governo, il cancelliere sbaglia. Roma non ha mai mentito sui suoi conti pubblici come ha fatto Atene. E poi la Germania dovrebbe comunque rispettare un partner commerciale dove esporta più che in Cina. E infine, quanto a debito pubblico, il governo di Berlino si avvale di antiche furbizie. Che, alla vigilia della sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe sui salvataggi già fatti e in vista della seduta del Bundestag di fine mese sul piano salva Stati, vale la pena di ricordare. Da 16 anni la Germania non include nel suo debito pubblico le passività del Kreditanstalt für Wiederaufbau, meglio noto come KfW, posseduto all’80% dallo Stato e al 20% dai Länder, altri soggetti pubblici. Si tratta di 428 miliardi di euro interamente garantiti dalla Repubblica federale. La KfW fa mutui a enti locali e piccole e medie imprese. Detiene partecipazioni cruciali in colossi come Deutsche Post e Deutsche Telekom. È vigilata dai ministeri delle Finanze e dell’Industria, non dalla Bundesbank. Grazie al legame di ferro con lo Stato, la KfW conquista la medaglia d’oro nella classifica mondiale dell’affidabilità, stilata da Global Finance, e il massimo rating da parte di Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch, lo stesso della Repubblica federale. Le sue obbligazioni sono dunque uguali ai bund. Ma a differenza dei bund, magicamente non entrano nel conto del debito pubblico. Se vi entrassero come la logica del Trattato di Maastricht vorrebbe, il debito pubblico tedesco salirebbe da 2.076 miliardi a 2.504 e la sua incidenza sul prodotto interno lordo 2011 balzerebbe dall’80,7% al 97,4%. Ancora un piccolo passo, magari per salvare qualche banca tedesca ingolosita dai titoli di Stato mediterranei, e potremmo dire: benvenuta Germania tra noi del club degli over 100%! La magia, che nasconde il 17% del debito pubblico reale tedesco, si chiama Esa95. È il manuale contabile che esclude dal debito pubblico, a integrazione dei criteri di Maastricht, le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono il 50,1% dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi. La serietà di un tale principio è paragonabile alla considerazione del rischio di controparte negli Ias-Ifrs, i principi contabili che hanno favorito il crac Lehman. Se per ipotesi KfW avesse problemi, chi pagherebbe? Lo Stato. E senza nemmeno l’ipocrisia degli Usa che qualificavano le loro Fanny Mae, Freddie Mac e Ginnie Mae come imprese sponsorizzate dal governo per far capire che, alla bisogna, il Tesoro avrebbe coperto, ma senza dirle statali per non sembrare statalisti. Ora l’Italia ha la Cassa depositi e prestiti, 70% Tesoro, 30% fondazioni bancarie, soggetti privati. La Cdp emette anno dopo anno obbligazioni che godono della garanzia statale e sono collocate dalle Poste sotto forma di buoni e di libretti. Mal contati sono 300 miliardi, due terzi reinvestiti in titoli di Stato e un terzo in mutui agli enti locali. La Cdp emette anche obbligazioni non garantite per una ventina di miliardi destinate alle iniziative per le imprese e detiene partecipazioni rilevanti. Ma il suo debito è per tutta la parte coperta da garanzia pubblica conteggiato nel debito pubblico. In un mondo serio delle due l’una: o la Germania ricalcola il suo debito come si deve perché l’Eurozona sotto attacco non accetta più furbizie da parte di nessuno, ancorché legalizzate a forza, oppure l’Italia deconsolida dal suo debito pubblico quei cento miliardi o giù di lì che la Cdp usa per gli enti locali, dato che questi la scelgono su un mercato bancario liberalizzato. Risulta che il ministro Giulio Tremonti abbia talvolta accennato al tema. Ma quando un governo vuole incidere, compie passi formali, il premier si mobilita, si muove anche il ministero degli Esteri. Si fa sentire sui giornali e in tv. E se i media non capiscono, insiste: nessuno negherà un’intervista a un ministro che voglia alzare la voce. Ma nell’Italia di oggi quest’ipotetica voce avrebbe un suono fesso. Nessuno, lontano da Roma, le presterebbe attenzione. Il punto è la credibilità. La Germania ne ha anche quando fa il gioco delle tre carte. All’Italia manca anche di fronte alla verità.”
Ed a proposito di questo articolo, il Senatore Elio Lannutti nell’Atto Ispettivo n° 4-05822 il 2 settembre scorso (seduta n°600), chiedeva di sapere:
“se a quanto risulta al Governo risponda al vero che il Governo di Berlino si avvale di “antiche furbizie” per classificare il suo debito poiché da 16 anni la Germania non includerebbe nel suo debito pubblico le passività del Kreditanstalt für Wiederaufbau, posseduto all’80 % dallo Stato e al 20% dai Länder; ossia 428 miliardi di euro interamente garantiti dalla Repubblica federale;
se sia vero che, grazie al legame di ferro con lo Stato, la KfW conquista la medaglia d’oro nella classifica mondiale dell’affidabilità, stilata da “Global Finance”, e il massimo rating da parte di Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch, lo stesso della Repubblica federale, con le sue obbligazioni che, a differenza dei bund, singolarmente non entrano nel conto del debito pubblico, posto che, se vi entrassero come la logica del Trattato di Maastricht vorrebbe, il debito pubblico tedesco salirebbe da 2.076 miliardi a 2.504 e la sua incidenza sul prodotto interno lordo 2011 balzerebbe dall’80,7% al 97,4%;
se l’artificio, che nasconde il 17% del debito pubblico reale tedesco in rapporto al PIL, sia dato dal Esa95, ossia il manuale contabile che esclude dal debito pubblico, a integrazione dei criteri di Maastricht, le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono il 50,1 per cento dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi;
quali misure urgenti il Governo intenda attivare in sede europea, anche per evitare che la Germania, che tutti i giorni offre lezioni all’Italia sulla tenuta dei conti pubblici, non ricorra ad artifizi contabili per evitare di essere annoverata nel club dei Paesi che, nonostante il massimo di affidabilità nella valutazione delle agenzie di rating, rischiano eventuali insolvenze distruggendo in tal modo in maniera definitiva il progetto dell’Europa unica”
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