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Crisi economica in Italia: le imprese italiane hanno troppo debito e poco capitale.

Scritto il alle 09:50 da carloscalzotto@finanza

La diagnosi è chiara: le imprese italiane hanno troppo debito e poco capitale. ***Lo dicono analisi e ricerche di ogni tipo e vale per le piccole imprese e per le medie. L’eccessivo indebitamento è una zavorra estremamente pericolosa in presenza del rialzo dei tassi di finanziamento e degli spread, nel 2012 si porterà via dai margini delle imprese qualcosa tra i 5 e 10 miliardi di euro da pagare alle banche. Non solo, la leva finanziaria eccessiva è motivo di riduzione del credito bancario quando determina rating elevati e quindi un costo del capitale di vigilanza eccessivo, secondo le regole di Basilea2.  La propensione delle imprese ad immettere capitali freschi è ai minimi sia perché le famiglie hanno esaurito spesso le scorte accumulate negli anni buoni (e già
condonate…), sia perché il livello di autofinanziamento è calato notevolmente.

La terapia adottata dal governo è l’introduzione dell’ACE (Allowance for Corporate Equity o in italiano ribattezzata Aiuto alla Crescita Economica) che ripercorrendo l’esperimento della Dual Income Tax (DIT) offre agli imprenditori una detrazione fiscale pari al rendimento teorico del capitale di nuova immissione. In soldoni o soldini un piccolo sconto fiscale sull’IRES che è stato quantificato in 825 euro a fronte di un aumento di capitale di 100.000 euro.  Non sfuggirà a nessuno che ci sono modi diversi e meno faticosi per procurarsi un risparmio fiscale di 825 euro e già questo dice che l’ACE sarà un fiasco per le piccole imprese e che i benefici fiscali andranno tutti alle grandi imprese che gli aumenti di capitale possono farli e li avrebbero fatti comunque anche senza ACE.*** fonte

 

Anche le imprese familiari sono alle prese con forti indebitamenti.

***Per capire quale potrà essere l’impatto dei provvedimenti presi dal governo Monti per favorire la crescita e l’occupazione può essere utile fare anche riferimento anche a un recente studio, la terza edizione dell’Osservatorio AUB su tutte le aziende familiari italiane di medie e grandi dimensioni, realizzato da Guido Corbetta, Alessandro Minichilli e Fabio Quarato della Cattedra AIdAF-Alberto Falck di Strategia delle aziende familiari della Bocconi in collaborazione con AIdAF (Associazione italiana delle aziende familiari), gruppo UniCredit e Camera di Commercio di Milano.

L’Osservatorio analizza le aziende italiane con un fatturato superiore ai 50 milioni di euro (6.816 imprese) e si sofferma sulle caratteristiche e le performance di quelle a controllo familiare (3.893 , ovvero il 57,1% delle medio-grandi imprese italiane, che si riducono a 2.423 dopo l’eliminazione delle sovrapposizioni dovute agli intrecci proprietari).

Un punto a favore della ‘gestione familiare’ sembra riguardare la capacità di creare occupazione, che nel periodo considerato mostra tassi di crescita significativa proprio nel comparto delle imprese familiari. I commenti allo studio non forniscono una spiegazione di questo dato, ma si potrebbe pensare che le famiglie-imprenditrici abbiano una maggiore propensione o attaccamento verso la conservazione dei posti di lavoro, oltre che una tendenza più pronunciata ad investire nella crescita rispetto alle società multinazionali (MNC) che sono portate a valutare con maggiore cinismo la convenienza e il costo del lavoro su uno scacchiere internazionale. Sconcertante il dato delle società controllate da fondi di private equity, il cui effetto di ‘razionalizzazione’ e ricerca esasperata del cashflow produce in media un calo importante della forza lavoro, un altro dei motivi per i quali il private equity non appare la migliore soluzione per la crescita di un sistema industriale.

fonte Linker

***L’unica certezza è che la precaria situazione dei nostri conti e del nostro debito pubblico hanno fatto schizzare verso l’alto i costi della finanza per le imprese. Notizie di stampa, ma soprattutto le prove su strada di fronte ai direttori di banca ci dicono che gli spread applicati dalle banche sui finanziamenti a medio lungo termine sono saliti da un livello che ancora a metà 2010 stava tra l’1.50% e il 2,00% a livelli odierni del 5-6%.  Di questo Mussari e l’ABI non parlano tanto volentieri quando vanno in televisione, ma per le reti bancarie si tratta solo di applicare istruzioni sui prezzi di listino che vengono aggiornate mensilmente.

Ma qual’è il prezzo che il nostro sistema imprese sta per pagare a causa del crollo della credibilità politica e istituzionale. Possiamo tentare alcuni conti e stime, basandoci semplicemente sull’impatto dell’aumento dello spread sui finanziamenti a medio-lungo termine che secondo il più recente bollettino statistico della Banca d’Italia erano pari a 371,1 miliardi di euro al 30 giugno 2011 per quanto riguarda le società non finanziarie, a cui dovremmo aggiungere altri 20 miliardi di leasing.  I conti sono presto fatti, se utilizziamo uno spread medio di 150 bp nel 2010, di 300 bp nel 2011 e di 550 bp nel 2012 la bolletta di oneri finanziari per le imprese passa rispettivamente da 11,7 a 17,6 a 27,4 miliardi ogni anno.  Quindi il costo teorico della credibilità del paese sui conti delle imprese è di ben 15 miliardi di euro (a parità di costo del parametro euribor a 1,5%).

Proviamo una stima più realistica dei costi che saranno effettivamente pagati dalle imprese, ipotizzando che solo un quinto dei finanziamenti e leasing in essere venga a scadenza nel periodo giugno 2011-giugno 2012 e che questa sia la finanza che le imprese devono sostituire a prezzi di mercato modificati.  Il costo aggiuntivo applicato su un valore che si ridurrebbe a circa 78 miliardi di euro sarebbe di circa 3,2 miliardi di euro all’anno. Ciò non toglie che se lo spread BTP-Bund e i costi di rifinanziamento delle banche non ritornassero ai livelli pre-crisi di fiducia ogni anno un’altra fetta dello stock dovrebbe essere rinnovata a costi crescenti aggiungendosi alla bolletta delle imprese.

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