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Riforma Fornero: equità con le riforme su lavoro e pensioni
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Bisogna subito tranquillizzarli, il problema della pensione della “generazione X” a cui io appartengo, non si pone, in quanto in nessun caso, un lavoratore precario che ha cominciato a lavorare ad esempio nel 2002, potrà aspirare ad una pensione superiore a quella sociale. Sono calcoli semplici.
I contributi versati dai precari, pochi e super tassati con aliquota paranormale, sono stati utilizzati per pagare le pensioni anche ai Vescovi (come ha dimostrato uno studio del Sole 24 ore), in quanto la cassa dei contributi a tempo determinato era in avanzo, essendoci oggi moltissimi precari al lavoro e quasi nessun precario pensionato.
Fra 30 anni ci sarà una massa di precari che busseranno all’Inps e casse vuote, compito 2: trovare l’equità.
Giriamo ai lettori del blog la mail di M.O. da Genova, che scrive: Il nuovo articolo 18 va respinto!
Molti lavoratori ancora non hanno ben compreso cosa cambia e quali rischi occupazionali si prospettano se passasse la nuova legge. Il merito della cattiva informazione deriva dagli organi di stampa, finanziati dai poteri forti, che ci raccontano che l’Italia sta puntando al modello tedesco, questa fantasia giornalistica non ha alcuna attinenza con la realtà.
Vediamo perchè. Il “patteggiamento” in Germania è solo una opzione. Se il lavoratore è convinto di poter dimostrare in Tribunale le sue buone ragioni, può sempre impugnare il licenziamento sia per motivi “soggettivi” (es. motivi disciplinari) sia per quelli “oggettivi” (es. motivi economici), puntando al reintegro.
Se il licenziamento risulta ingiustificato, viene automaticamente dichiarato nullo, e quindi si riconferma nel suo immutato vigore il contratto di lavoro preesistente.
Con il pagamento, per il datore di lavoro, di una penale e del salario dovuto per il periodo che va dal licenziamento alla sentenza. Questa tutela spetta dopo 6 mesi dall’inizio del rapporto di lavoro, perchè questa è la durata massima per il periodo di prova, non 3 anni come vorrebbe la compassionevole Elsa Fornero. In Germania l’obbligo di reintegrazione scatta per le aziende a partire da 10 dipendenti, non oltre i 15, come adesso in Italia. Il licenziamento va comunicato e motivato dal datore di lavoro alla rappresentanza sindacale aziendale, il Betriebsrat. Se il consiglio aziendale non lo ritiene giustificato, formula una obiezione scritta, che ha un peso rilevante nel caso si ricorra al giudice. Inoltre, se l’azienda ritiene di dover rinunciare a un lavoratore per motivi di ordine economico o organizzativo, non può licenziare a caso, ma solo chi tra i dipendenti ha la minore anzianità di servizio e meno familiari da mantenere. Come è facile capire il modello all’italiana ha completamente ignorato l’ultimo capitolo eliminando il Consiglio Aziendale. Con la riforma Monti-Fornero, invece, il reintegro sul posto di lavoro rischia di passare da essere un diritto del lavoratore (in caso di riconoscimento di illegittimità del licenziamento il lavoratore ha diritto a scegliere se essere reintegrato o ricevere un’indennità) al diritto dell’azienda di mandare via illegittimamente un lavoratore pagando un obolo.
LICENZIAMENTO PER MOTIVI ECONOMICI source
(detto anche per motivi oggettivi)
Oggi sono possibili quando coinvolgono almeno 5 dipendenti mentre con il nuovo sistema possono essere anche individuali. Si darà vita a una procedura di conciliazione prima del ricorso al Tribunale – presso la Direzione Territoriale del Lavoro -, ma non darà mai il diritto al reintegro nel posto di lavoro (come invece accade oggi). Qualora il giudice ritenesse non valido il motivo economico addotto dall’azienda per il licenziamento, non potrà disporre il reintegro, ma solo un indennizzo economico.
L’indennizzo sarà compreso tra le 15 e le 27 mensilità in base alle dimensioni dell’azienda, all’anzianità del lavoratore e al comportamento delle parti. Con l’attuale articolo 18, invece, ove il giudice non ritenga valido il motivo economico addotto dall’azienda per il licenziamento, può disporre il reintegro del lavoratore. Salva la facoltà del dipendente di optare, in alternativa, per l’indennizzo.
Il rischio di questa modifica è evidente, l’azienda può licenziare adducendo motivi economici per celare motivi politico-sindacali, con buona pace del divieto di licenziamento discriminatorio.
E anche qualora tale provvedimento risulti illegittimo davanti a un giudice questi non avrà alcun potere per ordinare il reintegro ma potrà al massimo disporre un indennizzo economico. Tra le altre cose, la definizione di motivo economico è talmente ampia che rischia di rivelarsi un pozzo senza fondo dove gettare tutti i lavoratori che risultino indigesti o poco produttivi in base a criteri esclusivamente aziendali.
È evidente poi che tale spauracchio si tradurrà in un incentivo al silenzio dei lavoratori anche davanti ad evidenti abusi aziendali depotenziando enormemente la forza contrattuale dei lavoratori che, anche solo per motivi psicologici (e così purtroppo non sarebbe) sentirebbero pendere sulla loro testa la mannaia del licenziamento.
LICENZIAMENTO PER MOTIVI DISCIPLINARI
(detto anche per motivi soggettivi)
La nuova previsione sui licenziamenti per motivi disciplinari darà al giudice la possibilità di applicare il reintegro o l’indennizzo per il lavoratore. Il giudice potrà trovarsi in due diverse situazioni:
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Se il fatto imputato al lavoratore non è stato commesso, o se non è un motivo previsto dai contratti settore, il giudice potrà decidere per il reintegro, in aggiunta al pagamento della retribuzione per tutto il periodo tra il licenziamento e il reintegro stesso;
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In tutti gli altri casi il giudice potrà disporre solamente l’indennizzo (tra le 15 e le 27 mensilità in base alle dimensioni dell’azienda, all’anzianità del lavoratore e al comportamento delle parti);
Anche in questo caso andiamo incontro a un peggioramento sostanziale delle tutele attualmente previste, in cui il potere di ordinare il reintegro da parte del giudice si riduce a due sole fattispecie, il cui contenuto dipenderà da quanto previsto dai contratti aziendali.
Nel caso di licenziamenti per motivi economici e discriminatori subentra un nuovo problema per il lavoratore, ovvero l’onere della prova. Infatti sarà a carico del lavoratore provare eventuali condizioni che confutano le decisioni assunte dall’Impresa.
LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO
La possibilità di reintegro viene estesa anche alle aziende con meno di 15 dipendenti. Il lavoratore, nell’impugnare il licenziamento, dovrà dimostrare davanti al giudice che questo è stato discriminatorio. Se il giudice riterrà fondato il ricorso, annullerà il licenziamento e reintegrerà il lavoratore. Si tratta di una ipotesi residuale che alla luce di quanto previsto dal resto della nuova norma diventa quasi ridicola.
Prendiamo il caso degli operai della Fiat, reintegrati nello stabilimento di Melfi: per i giudici il licenziamento dei tre operai fu discriminatorio, tuttavia è evidente che con la riforma targata Fornero la Fiat non si sarebbe imbarcata in complicate procedure di licenziamento per “motivi disciplinari”, ma avrebbe addotto i “motivi economici”. E addio al reintegro.
Quindi è chiaro che d’ora in poi nessun imprenditore sarà così stolto da dichiarare di aver licenziato un lavoratore perchè è NEGRO, EBREO, GAY o SINDACALISTA, ma farà riferimento al semplice motivo economico. In questo modo, soprattutto le grandi aziende, potranno, attraverso un indennizzo per loro ininfluente, mettere alla porta i “rompiscatole”.
AMMORTIZZATORI SOCIALI
All’interno della riforma del lavoro viene introdotta una norma che avrà delle grosse ripercussioni sul mondo del lavoro già soggetto a una indiscutibile e preoccupante facilità a licenziare. Viene introdotta l’ASPI(Assicurazione Sociale Impiego) che sostituisce la cassa integrazione in deroga e la mobilità. Ovvero vengono azzerati quegli ammortizzatori sociali che, in caso di crisi, accompagnavano i lavoratori più deboli (anziani, etc) alla pensione. L’ASPI prevede un assegno massimo di 1.119,32 euro per solo 12 mensilità. Nel famigerato sistema tedesco, inoltre, esistono una serie di ammortizzatori sociali che al momento non sono minimamente paragonabili a quelli previsti dalla riforma Fornero:
In Germania il sistema assicurativo contro la disoccupazione è obbligatorio per tutti i lavoratori subordinati che siano impiegati per almeno 18 ore settimanali e che percepiscano una retribuzione superiore a una soglia prestabilita.
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La cassa integrazione viene finanziata dunque dalla contribuzione sociale pari al 6,5% circa delle retribuzioni lorde, ripartito equamente tra datori e lavoratori;
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L’erogazione dell’indennità di disoccupazione (Arbeitslosengeld) è subordinata a determinati requisiti (come la disponibilità ad accettare un lavoro confacente al proprio patrimonio professionale e una ricerca attiva di una occupazione);
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L’entità del sussidio è calcolata sulla media delle retribuzioni dell’ultimo anno di servizio;
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La durata della prestazione, variabile tra i 6 ed i 32 mesi, dipende dall’età e dall’anzianità contributiva del beneficiario;
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Presente anche un sistema assistenziale, a carico della fiscalità generale, che prevede l’erogazione di un sussidio di disoccupazione (Arbeitlosenhilfe) in favore dei lavoratori che hanno percepito l’indennità di disoccupazione, ma che alla cessazione del sussidio sono ancora disoccupati;
In conclusione, quel che resta in piedi oggi in Germania è molto più vicino al regime previsto in Italia dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori di quanto vogliono farci credere l’ex membro della Banca Mondiale, Elsa Fornero, e tutti coloro che ne condividono vergognosamente le scelte. Per l’articolo sui figli ”choosy” del governo Monti leggete QUI
da M.O., Genova