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ITALIA: sul deficit la procedura è chiusa ma il peggio deve arrivare

Scritto il alle 10:23 da carloscalzotto@finanza

L’avvertimento è chiaro, addirittura ultimativo: nessuno pensi che con questa “chiusura di procedura” ora ci sia un margine per “politiche espansive”.

L’avviso che arriva dal Giornale di Confindustria, che qui sotto riportiamo, è brutale, ma preoccupato e in fondo sincero. Doti che difettano completamente alla classe politica nostrana. Del resto, Confindustria deve fare i conti con i profitti, e se ne può fregare della popolarità.

I “politici” nostra

ni – se questa qualifica non fosse per loro un onore esagerato – invece

debbono badare al consenso almeno tanto quanto alla “prescrizioni” della Troika. Anche se alla fine la bilancia pende sempre verso il potere vero, quello che sta sopra.

Come accade per gli scritti a loro modo classici, in questo il veleno sta nella coda: “la nuova Europa non solo non fa sconti a nessuno ma è pronta a marciare su problemi e disgrazie altrui per lucrarci sopra con estrema spregiudicatezza. Niente solidarietà o serie politiche comuni per crescita e occupazione collettive, al massimo qualche briciola qua e là, più che altro simbolica”.

Insomma: dobbiamo stare nell’Unione Europea come su un ring. Per questo dobbiamo “entrare in forma”, tagliare via tutto il grasso superfluo, allenarci, imparare a soffrire lottando, strabuzzare gli occhi e soprattutto sopprimere chi non regge il passo; altrimenti ti ammazzano. Ue, morituri te salutant!

Bell’ambientino, vero? Uno legge e si dice: cazzo!, questo sì che è vivere da essere umani…

Il programma è appena abbozzato, ma lo si può leggere in controluce nell’elenco dei “mali” che affliggerebbe l’Italia sul piano della “competitività globale”. Ve lo evidenziamo, in modo da non farvi perdere i dettagli:

“la preoccupante caduta della produttività, ci sono i costi unitari del lavoro che rispetto a 10 anni fa superano del 10% circa la media euro e del 35% quelli tedeschi. C’è un deficit macroscopico in fatto di istruzione e formazione, un regime fiscale troppo oppressivo su imprese e lavoro, prezzi dell’energia penalizzanti rispetto alla concorrenza Ue. C’è un sistema bancario debole, molto esposto sul debito sovrano e poco incline a finanziare l’industria. Che arretra nell’innovazione. source

E poi un sistema normativo farraginoso, opaco e confuso, la burocrazia che ci marcia sopra, una pubblica amministrazione che per efficienza compare in fondo alla classifica dei Paesi industrializzati. L’incertezza del diritto che certo non attira investimenti esteri, visto che ci vogliono mediamente 493 giorni (289 in Francia, 279 in Spagna, dati 2010) per ottenere da un tribunale civile una sentenza di primo grado e ben 1210 giorni per arrivare in fondo al contenzioso dopo aver espletato le 41 procedure necessarie (30 in Germania, 29 in Francia) con un costo pari al 30% della somma in contesa (14% a Berlino, 17% a Parigi)”.

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L’Europa non ci fa nessuno sconto

Sbaglierebbe di grosso chi si illudesse che l’imminente chiusura della procedura Ue anti-deficit eccessivo, della quale l’Italia è prigioniera dal 2009, darà finalmente mano libera al Governo Letta sul lato delle spese “costruttive”, destinate a crescita, investimenti e occupazione durevoli. Sbaglierebbe per due ragioni strettamente legate tra loro: il Paese resterà comunque in libertà vigilata, vincolato ad alcune raccomandazioni europee molto precise, in concreto all’attuazione di una serie di riforme strutturali, molte anche già annunciate ma mai realizzate.

Proprio per questo l’Italia sarà chiamata, ancora più di prima, ad assumersi le proprie responsabilità con minimi margini di errore. Non solo per accrescere il proprio peso e credibilità nella partita collettiva che presto potrebbe scrivere il nuovo futuro dell’euro e dell’Unione. Non solo per intrattenere un proficuo dialogo bilaterale con Bruxelles, il controllore.

Quanto e soprattutto per cominciare a guardarsi davvero allo specchio e capire se vuole giocare la partita decisiva con se stessa pagando il prezzo necessario a invertire il declino oppure se vuole continuare a vivacchiare facendo finta di niente ma scivolando inesorabilmente verso de-industrializzazione e pauperismo sempre più diffuso. La scelta dipenderà tutta e soltanto da noi. Le costrizioni Ue sono un utile punto di appoggio politico ma un accessorio.

Il Paese è sull’orlo del baratro. Non lo dice solo il presidente di Confindustria. Lo dice la foresta di differenziali che oscura i nostri rapporti con l’Europa. Certo, la zavorra dell’iper-debito è il macigno che soffoca lo sviluppo. Ma a metterlo a terra ormai da anni, condannandoci a una decrescita infelice (negli ultimi 5 anni abbiamo perso oltre 7 punti di Pil reale, quello pro capite oggi è sotto i livelli del 2000), sono debolezze strutturali meno vistose ma altrettanto velenose. Quelle che hanno eroso la nostra competitività di sistema rendendoci più vulnerabili di altri agli shock economici esterni.

L’elenco sarebbe lunghissimo. Ma, tanto per battere su alcuni dei tasti cari a Bruxelles, Fmi e Ocse, c’è la preoccupante caduta della produttività, ci sono i costi unitari del lavoro che rispetto a 10 anni fa superano del 10% circa la media euro e del 35% quelli tedeschi. C’è un deficit macroscopico in fatto di istruzione e formazione, un regime fiscale troppo oppressivo su imprese e lavoro, prezzi dell’energia penalizzanti rispetto alla concorrenza Ue. C’è un sistema bancario debole, molto esposto sul debito sovrano e poco incline a finanziare l’industria. Che arretra nell’innovazione.

E poi un sistema normativo farraginoso, opaco e confuso, la burocrazia che ci marcia sopra, una pubblica amministrazione che per efficienza compare in fondo alla classifica dei Paesi industrializzati. L’incertezza del diritto che certo non attira investimenti esteri, visto che ci vogliono mediamente 493 giorni (289 in Francia, 279 in Spagna, dati 2010) per ottenere da un tribunale civile una sentenza di primo grado e ben 1210 giorni per arrivare in fondo al contenzioso dopo aver espletato le 41 procedure necessarie (30 in Germania, 29 in Francia) con un costo pari al 30% della somma in contesa (14% a Berlino, 17% a Parigi). Non stupisce se siamo scesi al 42° posto nell’indice della competitività globale del World Economic Forum, cioè sotto la maggioranza dei Paesi Ocse.

Il quadro è desolante ma purtroppo non rivela niente di nuovo, come non saranno nuove le raccomandazioni che domani Bruxelles indirizzerà ufficialmente all’Italia, comprese quelle sul risanamento dei conti pubblici, in attesa del giudizio finale dei ministri finanziari Ue in giugno o luglio.

Di nuovo però c’è, come la lunga crisi dell’euro ha dimostrato, che la nuova Europa non solo non fa sconti a nessuno ma è pronta a marciare su problemi e disgrazie altrui per lucrarci sopra con estrema spregiudicatezza. Niente solidarietà o serie politiche comuni per crescita e occupazione collettive, al massimo qualche briciola qua e là, più che altro simbolica. Per l’Italia come per tutti ormai l’Europa non è lo scudo e nemmeno l’arena dove irrobustirsi per poi navigare più forti nel mare aperto della competizione globale. Paradossalmente si è ridotta a palestra dove lo scontro tra partner Ue è ancora più aggressivo e violento che fuori. Per risalire la china dei conti in ordine e della competitività l’Italia, dunque, dovrà contare essenzialmente sulle proprie forze: su una volontà collettiva di riscatto economico che per ora appare alquanto nebulosa. Il tempo stringe. La fine della procedura anti-deficit è una sfida da non perdere. Vincerla è necessario ma richiede l’impegno sincero di tutti.

di Adriana Carretelli

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