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Cosa fare per far rimanere l’Euro
Secondo the EEAG Report on the European Economy 2012 (pp. 62-63), fra il 1995 e il 2008 il deflatore implicito del PIL, espresso nella stessa moneta anche fra il 1995 e il 1999, nel periodo fra il 1995 e il 2008 é aumentato del 9% in Germania, del 41% in Italia e del 67% in Grecia. Ciò ha comportato una svalutazione reale della Germania di circa il 30% rispetto all’Italia e di circa il 50% rispetto alla Grecia. Non é anche questa una svalutazione competitiva, questa volta non dell’Italia ma della Germania? Ai tempi del marco e della lira le svalutazioni competitive avevano durata breve, poiché la svalutazione della lira innescava una crescita dei prezzi e dei salari nominali in Italia. Il problema é che con l’euro la svalutazione competitiva della Germania non innesca un analogo aumento di prezzi e salari nominali in Germania. Come si può pensare che variazioni di tale ampiezza nei tassi di cambio reali non abbiano effetti dirompenti sull’equilibrio competitivo fra i paesi dell’area euro? Come si può pensare di mantenere la stessa moneta se i prezzi interni, nonostante la politica monetaria comune, mostrano dinamiche così differenziate?
La sopravvivenza dell’euro è davvero condizionata alla realizzazione di un’unificazione politica, probabilmente prematura? Se l’unione politica stenta, non è detto che spezzare l’unità monetaria accresca il benessere dell’area. I problemi di competitività di alcuni paesi hanno cause che non dipendono dal cambio. Essenziale è invece l’unione della finanza e delle sue regole. E il sistema finanziario europeo dovrebbe essere meno banco-centrico. Mentre servirebbe una procedura comunitaria ufficiale per gestire eventuali ristrutturazioni ordinate dei debiti pubblici. source
Tutti dicono che l’esistenza dell’euro è in pericolo se non cresce l’unità fiscale e politica dell’Unione Europea. Tutti pensano che l’euro soffra di un peccato originale: l’Unione E-conomica e Monetaria (Uem) è stata troppo poco economica, la “E” è sottosviluppata. Lo è perché una “E” forte diventa una “P”, cioè implica un accentramento di poteri politici che gli Stati membri non vogliono. Proprio i nemici dell’euro sono i più solleciti nell’affermare che la sua sopravvivenza è condizionata alla realizzazione di un’unificazione politica che è facile presentare come almeno prematura.
Che l’euro sia fragile se l’Ue non si approfondisce, anche sul fronte politico, è vero, sia in base al buon senso che alla teoria monetaria più sofisticata. Non serve ribadirlo. È più utile spargere un po’ di senso critico perché la tesi venga assorbita con più consapevolezza del suo significato e dei suoi limiti. Provo a farlo con qualche argomentazione inusuale e un filo provocatoria.
I COSTI DEI CAMBI VARIABILI
Innanzitutto: l’euro è stato adottato per tante ragioni; almeno una di esse regge anche se non si approfondisce l’unione economico-politica: l’Europa ha voluto smettere di cercar di rimediare a problemi reali con artifici monetari. In particolare: ha voluto smettere di usare la flessibilità dei cambi nominali per rimediare a divergenze strutturali fra le competitività e fra i comportamenti di fondo delle politiche economiche nazionali. Ha capito, per esperienza, che la variabilità dei cambi nominali, pur dando aiuto – poco, precario e foriero di distorsioni intersettoriali – nel gestire shock asimmetrici di domanda esogeni e temporanei, è un guaio per tutto il resto; che l’uso dell’arma valutaria, mentre disincentiva gli aggiustamenti reali, incentiva il disordine monetario e le svalutazioni competitive e rende l’arma stessa sempre più spuntata, con effetti reali di sempre più breve durata. Ha capito che l’aumento inarrestabile della mobilità inter-europea dei capitali fa diventare i cambi flessibili fonte di instabilità; fa sì che trasmettano internazionalmente più perturbazioni di quante ne possa assorbire il “potere isolante” che caratterizza la flessibilità dei cambi solo se i capitali si muovono poco. Dopodiché l’Europa ha provato a organizzare un sistema di cambi fissi mantenendo le monete nazionali, ha constatato che non era credibile e sostenibile ed è corsa più svelta verso la moneta unica.
È vero che approfondire l’unione economico-politica aiuta a eliminare le divergenze che non conviene combattere variando i cambi nominali. Ma non è detto che, se l’approfondimento stenta, spezzare l’unità monetaria accresca il benessere dell’area. I problemi di competitività dell’Italia o della Grecia hanno radici che non c’entrano col cambio, il cui uso non farebbe che allontanare il loro sradicamento, creando subito una confusione monetaria dove i problemi reali diverrebbero persino difficili da misurare. La debolezza della “E” di Uem rende fragile la “M”, ma non per questo la rende sconveniente, né per i singoli paesi membri, né per l’area dell’euro nel suo insieme. Perché l’euro rimanga ciò andrebbe ricordato più spesso.
L’UNIONE PIÙ ESSENZIALE È QUELLA DELLA FINANZA E DELLE SUE REGOLE
In un certo senso è scorretto chiamare crisi dell’euro la crisi dei debiti sovrani di alcuni paesi dell’area dell’euro. Il valore interno ed esterno dell’euro non sembra in sofferenza. Ma l’analisi degli spread sui debiti sovrani fa pensare che contengano anche premi per il rischio di ritorno alle monete nazionali. Oltre che compensi per le probabilità di default, gli investitori vogliono anche quelli per possibili svalutazioni, come prima dell’euro. Se si riuscisse a convincere del tutto i mercati che l’euro non può spezzarsi, gli spread sarebbero minori.
Si può tentare di convincerli approfondendo subito molto l’unione finanziaria europea. Non è di moda dirlo, ma per la salute dell’euro questa unione è più importante di quella fiscale e politica. Purtroppo sta succedendo il contrario: i flussi interbancari si congelano ai confini nazionali, perché mancano vere banche sovranazionali e le banche tedesche diventano più tedesche, quelle francesi più francesi, quelle greche più greche. La banca di un paese teme la crisi di quella di un altro. Perché sono regolate e vigilate in modo diverso e perché se una entra in crisi ne risponde il suo governo, non un meccanismo di stabilità bancaria europeo, un’assicurazione dei depositi europea, un processo sovranazionale europeo di gestione della riorganizzazione o dissoluzione della banca. Non solo: le banche di ogni paese sono sempre più spinte dal loro management e dalle pressioni politiche a comprare titoli di Stato del loro governo. Così il rischio sovrano diviene rischio del sistema bancario nazionale, blocca la circolazione dell’euro verso quel paese, diventa una sorta di rischio monetario.
Se invece prevalgono banche “europee”, regolate e tutelate comunitariamente, la circolazione interbancaria è influenzata solo dai rischi specifici che una banca avverte nella gestione di un’altra. La natura molto nazionale dei sistemi bancari scoraggia lo sforzo di distinguere banche buone da banche cattive: è il rischio Paese che conta, compreso quello di abbandono dell’euro. Risultato: i flussi interbancari verso i Paesi più a rischio dell’area, hanno subìto un vero sudden stop. La prova è che la regolazione dei pagamenti nel sistema europeo delle banche centrali, il cosiddetto Target 2, vede crescere lo squilibrio fra persistenti saldi attivi del “nord Europa” e passivi del “Mediterraneo”. (1) È un fenomeno che dà qualche concretezza al pericolo che l’euro si spezzi e che sarebbe molto più contenuto se i problemi fossero solo i titoli di Stato mediterranei divenuti indigesti all’estero o i disavanzi correnti delle bilance dei pagamenti mediterranee. Invece c’è anche il problema di un sistema bancario che blocca la circolazione dell’euro verso certi paesi.
Il rimedio è accelerare la messa in comune completa delle regole bancarie e delle relative autorità nell’area dell’euro, favorendo la formazione di banche multinazionali e predisponendo in sede comunitaria risorse, procedure e sistemi assicurativi tali da costituire un meccanismo sovranazionale per la gestione delle banche in crisi. L’unificazione monetaria diventa allora più irreversibile, nei fatti e nelle aspettative. È lecito pensare che ciò richieda più unità “politica” di quanta gli Stati siano disposti a concedere. Ma si tratta di un’unità e di una messa in comune di risorse orientate a una precisa finalità: un’unità diversa e più limitata dell’apparato istituzionale che occorrerebbe per federare quote rilevanti dei bilanci e dei debiti pubblici nazionali. Temo che il vero ostacolo all’europeizzazione dei sistemi bancari non sia la scarsa disponibilità di unità politica, ma il fatto che richiederebbe la rottura della complice amicizia di banchieri e politici nazionali i quali, al riparo dei loro confini, amano scambiarsi favori. E la crisi globale, purtroppo, fa apparire erroneamente il riparo dei confini sotto una luce positiva.
DEFAULT E SECURITISATION
Propongo altre due affermazioni provocatorie e controcorrente circa ciò che serve perché l’euro rimanga integro. La prima è che se si mettesse a punto una procedura comunitaria pubblica, ufficiale, obbligatoria, tempestiva, per gestire ristrutturazioni ordinate dei debiti pubblici dei governi in difficoltà, diminuirebbe la percezione del rischio che la moneta comune possa spezzarsi. È l’opposto di quello che si è pensato finora, soprattutto per l’insistenza della Bce, fiera avversaria di ogni cenno a procedure di default. Se il governo di un paese, in caso di necessità, può ristrutturare tempestivamente e ordinatamente il suo debito, i mercati incorporano il rischio nello spread sui suoi titoli, ma non fermano i flussi interbancari al suo confine. Soffocare il default significa diffondere il rischio dalla finanza pubblica all’intero sistema monetario e creditizio di un paese, fino a far intravedere l’abbandono dell’euro.
La seconda è che l’euro starebbe meglio se il sistema finanziario europeo fosse meno banco-centrico, se le banche, oltre a essere meno “nazionali”, lasciassero più spazio a flussi di credito diretti, a titoli acquistati da fondi e portafogli non bancari. La crisi ha demonizzato la securitisation e la finanza di mercato e valorizzato l’intermediazione più tradizionale e, addirittura, più piccola e locale. Ma basarsi troppo sulle banche significa convogliare i flussi monetari e creditizi in vasi sanguigni interbancari che divengono troppo spessi, importanti e critici: se si ingolfano, è l’infarto per l’economia. Se l’ingolfo è ai confini nazionali è a rischio l’unità monetaria. Se il credito si disperde in titoli, i rischi-paese si diversificano più facilmente, la circolazione del denaro è meno canalizzata, meno passibile di interruzioni motivate dal pericolo che si spezzi la moneta unica.
(1) Su ciò è illuminante Merler e Pisani-Ferry, Sudden stops in the euro area, Bruegel Policy Contribution, March 2012. Giorgio Ragazzi, su lavoce.info del 26.3.2012 discute lo squilibrio dei saldi Target, ma lo collega solo agli squilibri delle partite correnti delle bilance dei pagamenti.