Crisi e tasse: imposta patrimoniale

Scritto il alle 18:21 da Agata Marino

 

L’IMPOSTA PATRIMONIALE: SE LA CONOSCI LA EVITI

Quando in questo strano Paese si parla di imposta patrimoniale, la mente tende a correre al lontano 1992, quando l’allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato operò, durante la notte, un prelievo una tandum del 6 per mille sulle giacenze dei conti correnti. Che  poi, a dirla tutta, il 1992, non sembra essere così lontano, viste le pessime condizioni economiche in cui lo Stato versa, ora come allora. Anzi, oggi la situazione appare ben più complessa e con margini di soluzione drammaticamente ridotti rispetto ad allora. 

 

Ad ogni buon conto, venendo al tema che ci occupa, va subito precisato che, benché in forme differenti rispetto al 1992, imposte patrimoniali sono  già presenti nel nostro ordinamento tributario e si chiamano principalmente IMU e Imposta sostitutiva sulle attività finanziarie; ma ne esistono anche altre minori. Al netto delle modalità censurabili con cui venne effettuato il prelievo dai conti,   a differenza della patrimoniale di Amato del 1992, quelle attuali sono addirittura più invasive poiché, essendo strutturali, colpiscono periodicamente le attività possedute in forma di patrimonio immobiliare e attività finanziarie (conti correnti, fondi comuni, dossier titoli ecc ecc). Qualche settimana fa, il premier Monti, si è lasciato andare ad una dichiarazione (poi smentita per mezzo del sito del Governo),  secondo la quale si starebbe studiando un’applicazione dell’imposta patrimoniale. Già, con un precedente articolo, ho anticipato che l’applicazione di una imposta patrimoniale, sarebbe un arduo esercizio soprattutto per colpire taluni categorie di cespiti.

 

Quindi, cerchiamo di ragionare sul tema al fine di capire in che modo potremmo essere colpiti da ulteriori imposte patrimoniali, e        quali difficoltà potrebbero riscontrarsi nell’applicazione di una simile imposta.  Preliminarmente, va osservato  che il governo potrebbe contare su un ”extragettito”, semplicemente inasprendo il prelievo fiscale sulle imposte patrimoniali già in essere.  Ciò  potrebbe esser fatto agevolmente alzando le aliquote del prelievo sia per l’IMU, che per l’imposta sostitutiva sulle attività finanziarie. Nel caso dell’IMU, inoltre, per ottenere lo stesso risultato, ad aliquote immutate , sarebbe sufficiente una rivalutazione degli estimi delle proprietà immobiliari, tali da attribuire agli immobili un valore superiore, aumentando così la  base imponibile da colpire e  favorendo quindi un aumento di gettito. Questa soluzione, per quanto di facile applicazione, presenterebbe comunque delle controindicazioni delle quali il Governo dovrebbe tenerne conto, almeno si spera.  Innanzitutto, nel pensare ad un eventuale inasprimento del prelievo fiscale relativo alle imposte patrimoniali già presenti, non si potrebbe non tenere in considerazione gli effetti che questo determinerebbe  alla luce del quadro congiunturale decisamente negativo e che, come abbiamo ripetutamente avuto modo di scrivere in questo sito, sta colpendo duramente il reddito disponibile delle famiglie.

 

In tal senso, ad esempio, un aumento della struttura impositiva dell’IMU (realizzata attraverso un aumento delle aliquote, o anche attraverso una rivalutazione della base imponibile), rischierebbe di essere troppo severo  o addirittura insostenibile, per coloro che non dispongono di una capacità di reddito adeguata per poter sopportare un esborso aggiuntivo rispetto a quanto pagato in ragione alle regole attuali. Esemplificando, si pensi a due contribuenti che hanno un patrimonio immobiliare del tutto simile; ma il primo ha un reddito derivante dalla sua attività di impresa o da lavoro dipendente, mentre il secondo non dispone di alcun reddito o, nella migliore delle ipotesi, ne dispone in maniera sensibilmente ridotta a causa della crisi in atto. Ne deriverà che il primo, benché con qualche restrizione  o rinuncia, potrà provvedere al pagamento dell’imposizione aggiuntiva, mentre il secondo non sarà nella condizione di sostenere alcun aumento.

 

Si consideri inoltre che, un eventuale aumento dell’imposizione, per quanto limitato che sia, andrebbe a colpire il reddito disponibile delle famiglie, e pertanto  produrrebbe  una ulteriore contrazione dei consumi e quindi aggraverebbe anche il ciclo economico, già pessimo di suo. Questo, inoltre, potrebbe comportare una diminuzione più o meno marcata della capacità di rimborso dei mutui al sistema bancario, impattando sugli  istituti di credito che, a quel punto, si troverebbero  nella condizione di  dover esporre ulteriori sofferenze potenzialmente idonee ad abbatterne il patrimonio,  aggravando così una situazione già complessa. Tutt’altro ragionamento potrebbe esser osservato in caso di aumento delle aliquote patrimoniali sulla ricchezza finanziaria, ossia quella investita in titoli, obbligazioni, azioni, fondi comuni ecc. In questo caso, benché sia già prevista una imposta sostitutiva dell’1 per mille fino a determinati patrimoni,che verrà aumentata del 50% il prossimo anno, ciò che rende possibile un ulteriore inasprimento dell’imposizione fiscale, risiede proprio nella natura dell’investimento stesso. E  cioè, il fatto che questo sia “immobilizzato” e quindi potenzialmente escluso dal
soddisfacimento diretto dei bisogni, e quindi dal sostenimento del ciclo economico attraverso la spesa di parte delle risorse investite.

 

In altre parole, proprio perché sono risorse investiste in attività finanziarie, in un certo qual modo, sfuggono dalla disponibilità del titolare e quindi anche dalla possibilità di spesa, seppur con le dovute eccezioni del caso. Il risparmiatore, nel sostenimento delle proprie spese, difficilmente intaccherà le risorse investite in strumenti finanziari anche se, in questa crisi,  ciò potrebbe essere parzialmente smentito, poiché sempre più frequente sembra essere il ricorso all’utilizzo di risparmi per integrare o sostituire un reddito che si è contratto o è venuto meno per effetto della crisi. Quindi, in teoria,  il governo potrebbe intervenire per inasprire l’imposizione sulla ricchezza finanziaria, senza con ciò determinare, in maniera proporzionale,  una diretta diminuzione dei consumi.

 

Ma anche una simile impostazione potrebbe risultare del tutto discriminante per talune categorie di investimenti o di cespiti, che potrebbero essere oggetto di imposizione. Si pensi, ad esempio, a due risparmiatori che dispongono entrambi di un patrimonio di 500.000 euro e che uno di questi abbia investito i propri risparmi in fondi comuni, mentre il secondo acquistando un immobile. Ebbene, nel primo caso, operare un prelievo a fronte dell’entità del patrimonio, risulterebbe di agevole portata poiché basterebbe aumentare l’aliquota di imposizione e  la società di gestione del fondo comune o l’intermediario finanziario, provvederebbe immediatamente ad operare la ritenuta, anche vendendo titoli per crearsi la liquidità necessaria al pagamento dell’imposta. Analogo ragionamento potrebbe essere svolto nel caso di azioni o obbligazioni in custodia su un dossier titoli intrattenuto presso qualsiasi banca. La quale banca, in questo caso, addebiterebbe l’importo dell’imposta sul conto corrente agganciato.

 

E nel caso non  si dovesse disporre della liquidità necessaria al pagamento dell’imposta, che si fa? In estrema ratio, si potrebbe comunque vendere dei  piccoli quantitativi di titoli ed integrare il saldo del conto corrente, in modo da poter consentire alla banca di operare il prelievo necessario al pagamento dell’imposta. Una soluzione simile a quella appena descritta, potrebbe comunque avere delle controindicazioni soprattutto nel caso in cui dovessero essere introdotte delle patrimoniali straordinarie o una tandum; ma di questo parleremo in seguito. Come dicevamo, il discorso si complica, e non poco, nel caso di immobili. Il risparmiatore che ha investito le sue disponibilità, magari  prosciugandole,  nell’acquisto di un immobile avvenuto in tempi di vacche grasse, oggi potrebbe trovarsi nella condizione di non poter provvedere al pagamento dell’imposta patrimoniale, magari aumentata rispetto alle aliquote attuali. In questo caso, il contribuente in esame, non potrà certamente vendersi una frazione dell’immobile  per poter provvedere all’obbligazione tributaria. E ciò per evidenti ragioni. E in questo caso, cosa si potrebbe fare?  A questo interrogativo, al momento, non è stata fornita alcuna risposta a mio avviso praticabile. A meno che non si facciano suonare le trombe della cavalleria e, attraverso l’ente di riscossione (Equitalia), si aggredisca il patrimonio del contribuente. Ma questo, a parer di chi scrive, cozzerebbe con gli elementi cardine di uno stato democratico e di una economia avanzata: ossia la tutela del risparmio, peraltro prevista costituzionalmente.

 

Inoltre, l’immobile acquistato potrebbe essere assistito da ipoteca a fronte del mutuo contratto per l’acquisto; quindi una passività. E’ evidente che, dal punto di vista del contribuente, è del tutto legittimo considerare a scomputo del valore del cespite da colpire con imposta, anche le passività finanziaria a fronte dell’acquisto, e quindi l’eventuale mutuo. Aspetto, questo, che avrà comunque una marcata rilevanza in caso di applicazione di imposte  a carattere straordinario, poiché, queste, verosimilmente, oltre ad impattare in modo più significativo, sconterebbero aliquote progressivamente più alte in ragione del patrimonio posseduto. Quindi, nel rispetto di  elementari ed intuibili principi di equità,  sarebbe discriminante colpire in maniera identica due patrimoni, nel caso in cui  uno di questi risulti assistito da un mutuo (quindi una passività), ancorché esprimano identici valori patrimoniali.  In buona sostanza, se così fosse, verrebbe confermata l’attuale impostazione dell’IMU che, come noto, colpisce il “valore” degli immobili a prescindere dall’eventuale passività (mutuo) in capo all’immobile stesso, rendendo l’imposta profondamente iniqua. Senza dimenticare poi, che un ulteriore inasprimento dell’imposizione tributaria sugli immobili, causerebbe anche nefaste conseguenze anche sul valore, deprimendolo ulteriormente. Circostanza, questa, che non esaurirebbe i suoi effetti solo in capo al proprietario dell’immobile che, a quel punto, si vedrebbe diminuire il valore dell’immobile; ma produrrebbe effetti pericolosi anche nel mondo bancario attraverso la diminuzione dei valori posti a garanzia di eventuali mutui, con conseguenze del tutto immaginabili. In questo, la Spagna insegna molto.


Come abbiamo visto sin qui, un inasprimento della imposizione patrimoniale presenta numerose difficoltà applicative,  soprattutto se si dovesse agire nel rispetto dei principi di equità che dovrebbero essere comunque garantiti ed imprescindibili. Ma, sotto questo profilo, benché l’azione del governo in carica sia stata ispirata a criteri di equità, l’esperienza empirica ci porta ad affermare con certezza che questo carattere e’ risultato del tutto latente nell’azione di governo.

Alle imposte patrimoniali presenti nel nostro ordinamento,  sebbene abbiano carattere strutturale e quindi ripetute negli anni,  appartiene, tutto sommato e con qualche sacrificio, la caratteristica della sostenibilità in termini di possibilità da parte del contribuente di poter adempiere all’obbligazione tributari; benché in un contesto di deterioramento delle capacità reddituali e di evidenti difficoltà, soprattutto in taluni  strati della popolazione.  L’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria, troppo spesso impropriamente evocata da parte dei nostri politici (Bersani in primis), verosimilmente,  viene pensata  sulla base di un feroce inasprimento delle aliquote impositive, tale da  poter utilizzare il gettito straordinario ad abbattere in modo proporzionale il debito pubblico per qualche centinaio di miliardi. Senza addentrarci nei numeri che, a parer di chi scrive, smentiscono, almeno in via di principio, le aspettative di gettito auspicato dai vari politici che evocano l’introduzione di una patrimoniale straordinaria, vediamo come possono complicarsi le cose nel caso che questa imposta venga effettivamente introdotta. Andiamo in ordine.

 

E’ evidente che l’eventuale applicazione di una imposta patrimoniale feroce e magari progressiva, dovrebbe quantomeno  considerare non solo i patrimoni facilmente colpibili come nel caso delle imposte già in vigore, ma l’intera  ricchezza  del soggetto o del nucleo famigliare a cui l’imposta è rivolta. E ciò per evidenti ragioni di equità impositiva secondo cui, chi  più possiede, più paga in termini di imposta.   E quindi, cosa comprendere? Cosa potrebbe essere considerato nella definizione di patrimonio? Sicuramente gli immobili, anche perché offrono un ottima base imponibile che, tuttavia,  dovrebbe quantomeno essere abbattuta delle passività (mutui) . Certamente anche il patrimonio mobiliare (azioni, titoli, obbligazioni, depositi ecc ecc). Ma, oltre questa ricchezza, peraltro già ampiamente tassata, cos’altro potrebbe essere considerato nella definizione di patrimonio del contribuente? E qui, potremmo sbizzarrirci con tutto ciò che possa costituire  asset suscettibile di valutazione economica, purché visibile ed individuabile dal fisco. Ecco quindi che potremmo considerare il valore della partecipazione ad una società ancorché non quotata, il valore della nostra impresa, o una barca, un automobile, e quant’altro possa essere individuato e  definibile nella sua dimensione patrimoniale.

 

Sicuramente, l’estensione delle tipologie di asset a cui applicare l’imposta patrimoniale, oltre ad offrire una base imponibile tanto più ampia quanto più estese saranno  le specie e i volumi di patrimonio considerati, tenderebbe a favorire  il rispetto di elementi di maggior equità. Tuttavia,  qui emergerebbero fin da subito le prime difficoltà applicative. Innanzitutto, non sempre ciò che costituisce un valore patrimoniale, è ben identificabile ed individuabile da parte del fisco. Si pensi, solo per citare alcuni esempi, a dei  quadri di valore, a delle  opere d’arte,  a vasi antichi, o una collezione di arazzi. Questi, in genere, sono beni che talvolta possono rappresentare dei grandi valori,  ma difficilmente intercettabili da parte del fisco, poiché raramente censiti e quindi conosciuti all’anagrafe tributaria  nella dimensione patrimoniale (valore) e nella sua collocazione. Ma questi, non sono gli unici valori patrimoniali che potrebbero sfuggire all’interesse del fisco. Si pensi, ancora, al denaro contante, a monetati aurei,  a lingotti in oro o altri metalli preziosi, detenuti anche fuori dal perimetro bancario. Ecco quindi che, in questi casi, risulta impossibile che il fisco possa colpire beni di cui non ne conosce il valore e soprattutto la collocazione.

 

Ragionando invece su altre tipologie di patrimoni  quali, ad esempio, aziende,  quote di partecipazione in società, o più semplicemente una piccola impresa individuale, si porrebbe il problema di attribuire un valore a queste attività, che tenga conto di moltissime variabili e fattori, attraverso i quali, tuttavia,   non sempre si riesce a valorizzare in maniera pertinente l’esatto valore di questi patrimoni. E ciò, neanche attraverso apposite perizie effettuate da professionisti. Il rischio, quindi, è proprio quello di subire una valorizzazione amministrativa da parte dello Stato attraverso delle procedure  che, in maniera più o meno arbitraria, possano valorizzare determinati asset. In sostanza, è un po’ come oggi avviene con  gli studi di settore per la quantificazione dei  redditi di impresa. E in  anche questo caso, l’esperienza ci  conferma quanto possano risultare arbitrarie e non pertinenti la determinazione del fisco. Inoltre, nel caso di imposte patrimoniali applicate ad imprese o aziende, c’è da dire che queste comporterebbero anche un ulteriore abbattimento della competitività della imprese che, a quel punto, dovrebbero compensare la compressione di redditività patita  con l’imposta applicata, attraverso un aumento di prezzi che le renderebbero ancor meno competitive,  e aggravando una situazione già di per se critica.

 

Chiarito ciò, resta ora da verificare quali potrebbero risultare i cespiti più facilmente colpiti dall’applicazione dell’imposta. Come abbiamo visto, gli investimenti finanziari (ossia in titoli di stato, polizze fondi comuni, azioni ecc) per loro natura, si prestano  ad essere colpiti con maggiore attitudine rispetto ad altre tipologie di asset. Ma anche in questo caso, l’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria fortemente invasiva in termini di prelievo fiscale, rischierebbe di produrre più danni che guadagni. Pensiamo, ad esempio, ad un pacchetto di azioni  detenute da un risparmiatore, supponiamo per 100.000 euro,  e che vengano colpite da un imposta straordinaria di qualche punto percentuale. In questo caso, se il risparmiatore non dovesse disporre di liquidità sufficiente  per provvedere al pagamento dell’imposta, egli sarebbe costretto a liquidare  parte del proprio investimento al fine di ottenere le risorse necessarie per provvedere al pagamento dell’imposizione tributaria. Questo,  se effettuato su scala rilevante, determinerebbe pericolose distorsioni di mercato. Si pensi, ad esempio, alla caduta dei prezzi che si potrebbero determinare su un titolo: il risparmiatore ne risulterebbe doppiamente penalizzato poiché, oltre a subire una diminuzione del patrimonio per effetto dell’imposizione fiscale, subirebbe anche il deprezzamento  del proprio portafoglio titoli per effetto delle vendite sui titoli.  Questo appare  tanto più vero nel nostro mercato finanziario, il quale, essendo di modeste dimensioni, risulta particolarmente esposto alla possibilità di variazione di prezzi anche con capitali relativamente esigui. Inoltre, ciò rischierebbe di avvantaggiare investitori stranieri, (quindi esenti da imposta) che in quest’ultimo caso, potrebbero acquistare pacchetti azionari  a buon mercato per effetto della depressione dei prezzi causata da una patrimoniale feroce. Evidentemente le conseguenze nefaste, non si esaurirebbero con le casistiche appena descritte, ma andrebbe ben oltre.

 

Discorso analogo potrebbe essere effettuato per le obbligazioni societarie o con i titoli di stato. Ma, in quest’ultimo caso, occorre effettuare qualche ulteriore ragionamento in virtù del fatto che, il titolo di stato, essendo un debito dello Stato che si vorrebbe abbattere proprio attraverso l’imposizione patrimoniale straordinaria, lo Stato potrebbe essere tentato di operare una compensazione tra il suo credito derivante dall’imposizione tributaria e il suo debito rappresentato dal titolo di Stato nel portafoglio del risparmiatore. In altre parole, in questo caso, laddove  non si dispongano di risorse necessarie per poter corrispondere l’imposizione tributaria, lo  Stato potrebbe effettuare una compensazione tra il proprio credito (imposta patrimoniale) e il proprio debito (titolo di stato), diminuendone o azzerandone gli  interessi previsti o, nei casi più “estremi”, decurtandone il capitale alla scadenza del titolo. In buona sostanza, un default mascherato da una patrimoniale.

 

Relativamente a questa  eventuale tentazione,  sussistono elementi che dovrebbero indurci a riflettere. In primo luogo l’applicazione di una imposta patrimoniale feroce, verosimilmente, andrebbe a colpire anche i fondi pensione e i fondi assicurativi, verso i quali un numero non del tutto indifferente di risparmiatori  hanno riposto le speranze per  ottenere l’integrazione pensionistica, al fine di  integrare (o sostituire)  la pensione erogata  dai vari enti previdenziali.  Sotto questo punto di vista, le scelte del governo volte all’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria, contrasterebbero con le politiche di welfare e con le varie riforme pensionistiche varate negli ultimi 10 anni, o forse più e. Al riguardo, vale la pena ricordare che tali politiche hanno impresso uno stimolo allo sviluppo di forme pensionistiche alternative capaci di integrare i flussi  finanziari del risparmiatore in età pensionabile, al fine di arginare la progressiva diminuzione delle prestazioni garantite dai veri enti pensionistici. Non un problema da poco, direi.

 

Un ulteriore ragionamento, possiamo farlo a proposito dello  stock di debito pubblico in mani italiane che, come è noto, fino a circa un anno fa era di circa il 50%. Percentuale relativamente esigua se considerassimo  che  la necessità di ottenere un gettito tributario rilevante, varia anche in ragione della base imponibile da colpire, oltre che dalla relativa percentuale di imposta. Tuttavia, In questi ultimi mesi, per diverse ragioni che abbiamo avuto modo di  discutere in questo sito, il debito in mani italiane è aumentato fino al 70%; ossia è aumentata la base imponibile da colpire all’interno del perimetro nazionale. Ma è anche vero che a questo rimpatrio dei titoli di stato, ha contribuito per lo  più il sistema bancario italiano che, grazie ai finanziamenti della BCE, si è sostituito ad investitori esteri in fuga dall’Italia. L’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria all’interno della nazione, contrasterebbe anche con le precarie condizioni in cui versa il sistema bancario nazionale che, nel caso di patrimoniale sui titoli di stato,  potrebbe vedersi colpiti anche i propri titoli, determinando così delle perdite. Quindi,  ipotesi inverosimile, a parer di chi scrive, e per diverse ragioni. Ma, escludere il sistema bancario dall’imposizione patrimoniale, significherebbe anche dover patire una  riduzione sensibile della base imponibile da colpire e quindi, a parità di aliquote, un minor gettito  tributario. Che fare quindi?

 

Semplice rispondere. Sarebbe sufficiente che il sistema bancario collocasse  i propri titoli di stato  alla clientela privata o veicolasse questi nei fondi comuni gestiti dalle società di cui le banche sono azioniste e il gioco sarebbe fatto.  Ecco qua ricostituita un ampia base imponibile da colpire, a scapito dei contribuenti e dei risparmiatori. Questa pratica, che di fatto  consisterebbe nel ribaltare i rischi dei titoli in portafoglio sui risparmiatori, è pratica nota al sistema bancario italiano. Tutti ricorderanno con quanta solerzia, in passato, le nostre banche, poco prima dei rispettivi default,  hanno scaricato su ignari risparmiatori le loro obbligazioni Parmalat, Cirio o quelle argentine e molte altre ancora. L’esito di questo censurabile modus operandi è a tutti noto.

 

Ma ritornando al ragionamento che interessa, veniamo ad una bizzarra e fantasiosa  imposta patrimoniale ipotizzata nell’estate del 2011 dall’ex Ragioniere Generale dello Stato Andrea Monorchio. Secondo quest’ultimo, in Italia, sarebbe auspicabile introdurre un imposta patrimoniale, che consenta di garantire con beni reali il debito pubblico Italia. In altre parole e semplificando, si tratterebbe di introdurre un ipoteca forzosa sul patrimonio immobiliare insistente in Italia, e garantire le emissioni di particolari titoli di stato, con dei beni reali e quindi facilmente escutibili in caso di insolvenza da parte dello Stato. Da segnalare che secondo l’idea di Monorchio, questi titoli sarebbero dovuti essere sottoscritti dalla BCE, in contrasto con tutti i trattati europei che vietano la monetizzazione del debito da parte della banca centrale. Niente male come idea, se non fosse che neanche un Paese bolscevico sarebbe capace di arrivare a tanto.

 

Evitandovi la noia di argomentare su numeri aggregati desumibili da un rapporto di Bankitalia pubblicato circa un anno fa, con il quale si stima la ricchezza degli italiani, se ne avete passione e l’aspirazione, prendendo lo studio dell’istituto di via nazionale, fatte le dovute considerazioni, ne derivereste che il gettito di un’imposta patrimoniale sarebbe drammaticamente più contenuto rispetto a quello che i vari Bersani & c. paventano, escludendo patrimoni fino al milione di euro. Con la controindicazione che questa, oltre ad essere una tassa iniqua ed ingiusta per definizione (poiché  andrebbe a colpire anche i patrimoni realizzati con flussi di reddito già ampiamente tassati, al pari di quelli realizzati sfuggendo ad imposizione fiscale o pagando tasse in maniera ridotta), comporterebbe il concretizzarsi di un evento deprecabile che comprometterebbe in maniera sostanziale anche la già precaria fiducia dei risparmiatori nei confronti dello Stato e, soprattutto, sarebbe lesiva degli interessi dei risparmiatore peraltro costituzionalmente tutelati. Senza dimenticare poi, che molte sostanze liquide appartenenti a contribuenti che dispongono di patrimoni interessati all’imposta patrimoniale (grandi patrimoni), sono state già occultate in maniera più o meno lecita al fisco, convertendo in denaro contate i rispettivi investimenti o, ancora peggio, allocandoli fuori dal perimetro nazionale,  magari su qualche conto offshore di qualche paradiso fiscale. In Italia, non esistono spazi per un ulteriore inasprimento fiscale e, lontani da ogni demagogia, mi sento di suggerire ai vari politici di turno, che pensassero a qualcos’altro di diverso per rimettere in carreggiata il Paese. Sempre che riescano nell’intento. Ma ne dubito fortemente.

di Paolo Cardenà Blog VincitorieVinti

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1 commento Commenta
Vincent Vega
Scritto il 13 Dicembre 2012 at 19:46

con l’introduzione dell’anagrafe canina (si dice così ❓ ) e relativo chip obbligatorio, non mi sorprenderei di vedere una patrimoniale di xx€/Kg . Perchè gli animali sono registrati quindi facilmente individuabili, te la vendono che un’animale è un lusso, sporca e quindi costa di più pulire le strade (condivisibile tra l’altro l’ultima scusa) e allora devi pagare 😈

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