Crisi Europea: Mario Draghi e le terapie d’urto
Mario Draghi, intervistato dal wall street journal, il governatore della Bce non poteva essere più chiaro: per uscire dalla crisi gli europei dovranno mettere in discussione il modello sociale in vigore dal secondo dopoguerra.
“Il modello sociale europeo è morto”. Non era mai accaduto che il governatore della Banca centrale parlasse con tanta veemenza della crisi che stiamo attraversando.
Le parole pronunciate da Mario Draghi nella lunga intervista rilasciata venerdì scorso al
Wall Street Journal, sono talmente forti che non avrebbe mai potuto pronunciarle altrove se non al cospetto della bibbia della finanza internazionale.
Perfino Jean-Claude Trichet era più cauto quando tentava di spiegare ai popoli europei cosa li aspettava.
Per Mario Draghi, ex banchiere di Goldman Sachs e nuovo responsabile della moneta unica, salvare l’euro sarà possibile solo a caro prezzo. Secondo lui non esistono alternative all’applicazione di rigorose politiche di austerità in tutti i paesi indebitati, il che significa rinunciare a un modello sociale fondato sulla sicurezza del posto di lavoro e su una generosa ridistribuzione sociale.
Il modello sul quale l’Europa ha basato il proprio benessere dalla fine della seconda guerra mondiale è ormai “superato”, ha detto testualmente Draghi, che ha poi citato la frase dell’economista tedesco Rudi Dornbusch: “Gli europei sono così ricchi da potersi permettere di pagare tutti per non lavorare”.
L’intervento del governatore della Bce potrebbe sembrare una provocazione, a pochi giorni da quando la banca centrale staccherà un secondo assegno di 500 miliardi di euro per le banche che il 29 febbraio busseranno allo sportello approntato per salvare l’euro. Come smentire chi sostiene che stiamo sacrificando i popoli per salvare le banche?
Le tesi di Draghi sono senza appello: qualsiasi passo indietro rispetto ai programmi di risanamento provocherà la reazione immediata dei mercati, che spingeranno i tassi di interesse ancora più in alto rendendo sempre più difficile – per non dire impossibile – rimettere in sesto le finanze pubbliche. È accaduto alla Grecia, e c’è mancato poco che accadesse anche a Portogallo, Spagna e Italia.
Le parole di Draghi non sono slegate dal calendario elettorale europeo. Ad aprile in Grecia, a maggio in Francia, nella primavera del 2013 in Italia, i cittadini si esprimeranno con il voto. Spiegando, come una Margaret Thatcher dei nostri giorni, che a prescindere dall’esito del voto i governi non potranno che mantenere le stesse politiche di rigore, portare avanti le riforme del mercato del lavoro e smantellare ulteriormente il loro modello sociale, il governatore della Bce lascia trapelare le proprie intenzioni.
Non provate a dirgli che la tregua concessa dai mercati significa che la crisi è finita.
La riprova arriverà il 29 febbraio, quando le banche chiederanno alla Bce un appoggio senza il quale il sistema finanziario non potrebbe resistere, come appunto è avvenuto. Senza un’iniezione di capitali delle banche centrali – negli Stati Uniti con il quantitative easing della Fed, in Europa con l’operazione di finanziamento a lungo termine della Bce – tutto crollerebbe. Perfino la Cina è costretta a puntellare le proprie banche in difficoltà.
Con la sua presa di posizione, Draghi vuole ottenere una presa di coscienza. Secondo lui è meglio una drastica purga e riforme strutturali immediate che vivere dieci anni terribili sotto la pressione dei mercati.
È la stessa scelta fatta da Mario Monti in Italia, con notevole successo finora, se si tiene conto che in cento giorni questo altro ex collaboratore di Goldman Sachs è riuscito a tirar fuori il paese dall’occhio del ciclone, dandogli in un certo senso un nuovo volto.
E la lezione vale anche per gli altri paesi fonte